La cultura del lino (linum usitatissimum L.) era fino
a mezzo secolo addietro molto diffusa nel territorio di Ciminna,
ma ora essa non esiste più per la sostituzione di altri
tessuti alla tela, per le macchine di nuova invenzione e per
la legge del 22 dicembre 1888 e per altre leggi posteriori,
che limitano la macerazione delle piante tessili. Parecchi
scrittori, fra i quali Pitrè1
, Benedetto Rubino2,
Michele Alesso3,
F. Pulci4
ed altri hanno trattato la filatura e la tessitura del lino,
io accennerò invece alla coltivazione del lino, perché
meno conosciuta.
Per ottenere una buona produzione il lino si seminava nei
terreni fertili, preferibilmente calcarei (vuschigni), e mai
in quelli argillosi (gritìgni). Si seminava nei campi
a maggese e raramente in quelli dove 1' anno precedente era
stato seminato lino o grano ; per lo più si alternava
con la cultura delle fave e d'altre leguminose.
La preparazione del terreno cominciava dopo la mietitura,
liberandolo dalle erbe parassite e facendo in seguito due
arature o zappature
(1) Biblioteca
delle tradizioni popolari, voi. XXV, pagg. 127-160.
(2) VarMas di
M.lano, febbraio 1913, anno X, r>. 106, pagg. 137,142,
e F..U klore di San Fratello, A. Reber, Palermo, 1914, pagg.
37-50.
(3) Sicania,
an. IX, pag. 8.
(4) Sicania,
an. IV, pag, 14.
2. La semina si faceva in ottobre (favi, e linu quannu
lu parmentu è chinu). In un tumulo di terra (mq.
1394) si seminava a spaglio un tumolo e quattro carezze di
linseme (linusa), che doveva prima essere liberato dai semi
di cattive erbe (loglio, trifoglio, giagiolo, ecc.). Quanto
più folto (sirratu) era il lino, tanto più alto
e sottile cresceva. Quando il grano spunta folto si dice ancora
per somiglianzà affaccia comu u linu. Se il
lino si seminava rado cresceva con lo stelo grosso (frascusu),
con una proporzione maggiore di materia legnosa (linazza)
e produceva altri steli secondari ('mprucchi).
Chi non voleva occuparsi della coltivazione del lino dava
il terreno a mezzadria coi seguenti patti. Il proprietario
apprestava la metà della semente e il mezzadro l'altra
metà con l'obbligo di fare tutte le coltivazioni necessarie
fino alla maciullazione (maglìafina), dopo
la quale il prodotto era diviso in parti uguali fra 1'uno
e 1'altro. Nei feudi vigevano altri patti. Il contadino (burgisi)
aveva il diritto di seminare a lino un tumolo di terreno,
ricavandone l'intero prodotto, ma doveva pagare il terratico
in frumento (due tumuli circa).
Top
3. Malattie
colpivano la pianta.
3. Verso la metà di aprile si estirpavano
le erbe cattive (loglio, trifoglio, giagiolo, ecc.) per ottenere
linseme netto, e questo lavoro si chiamava ricurriri lu
limi. Passato quel tempo, ciò non poteva più
farsi, poiché il lino 'ncacucciulaua, cioè formava
la capocchie (cacocciuli), le quali intrecciandosi
tra loro impedivano il lavoro.
Il lino era sotto l'influenza di alcune vicende atmosferiche,
che ne diminuivano e guastavano il prodotto. Quando, infatti,
pioveva molto nel mese di aprile, il lino era colpito da una
malattia chiamata pilagrina e prodotta da un'erba cattiva
(sinapis dissecta L.), che esercitava una sorta di
falso parassitismo. Il lino restava più basso dell'ordinario
e il seme non poteva usarsi per la prossima raccolta. Ma se
la malattia era grave il lino era inservibile e veniva bruciato.
L'abbondanza delle piogge apportava al lino altri danni, che
ne distruggevano il prodotto. In tali casi la pianta, specialmente
quella che era più alta, si piegava verso il terreno,
come fa il grano nel tempo vicino alla mietitura e si allinazzava,
cioè si putrefaceva e poi si bruciava per nettare il
terreno.
Anche le brine (ilati) nel detto mese danneggiavano
il lino, e lo scirocco infine, quando colpiva il lino nel
periodo della fioritura, danneggiava i semi che, restando
piccoli e non essendo più atti alla semina, si vendevano
la metà del prezzo ordinario. Ma vi erano danni dovuti
alla cattiva coltivazione. Quando il lino si estirpava un
pò tardi (strasiccu), nella scotulatura la
parte esterna degli steli si mescolava capecchio (linazza)
e le capocchie si aprivano spontaneamente per deiscenza, lasciando
cadere a terra il seme, che era raccolto dalle formiche e
dagli uccelli. I quali ne erano tanto ghiotti, che anche quando
era collocato a rota e coperto con frasche dai contadini,
lo beccavano dalle capocchie.
Ogni pianta di lino produceva da quattro a sei fiori di color
celeste, i quali si chiamavano nevuli, e quando la fioritura
era completa diceva: lu linu annivulau. Il periodo
della fioritura durava 8-10 arni, dopo i quali i fiori alligavano
trasformandosi in capocchie (cacocciuli), e quando
ciò era avvenuto, si diceva : lu linu 'ncacuccilau.
Top
4.
Malattie
colpivano la pianta.
4. Dopo altri otto giorni il lino sburava,
cioè gettava tutte le foglioline dello stelo e diventava
di un color biondo come la cera ('nciratu). Allora,
verso la metà di maggio, il lino si estirpava, ma ciò
non poteva farsi quando il terreno, a causa di piogge, era
bagnato, perché lino non cutulava, cioè,
battendolo, non lasciava cadere la terra attaccata alle radici,
e quando il terreno era troppo asciutto, perché il
lino non poteva tirarsi dal suolo, e in questi casi si doveva
mietere a fior di terra.
Per estirpare il lino, si prendevano con le mani alcuni steli,
tirandoli dal suolo. Quattro o cinque prese formavano una
manu, che i batteva coi piedi per separare la terra
dalle radici e quando ciò vveniva facilmente si diceva
: lu linu cotula.
Quattro manu formavano una manna, che si legava coli' ampelodesmo
(ammannunari). Le manne si mettevano con le radici
rivolte al suolo, disposte a rota di 12 a 13 alternativamente,
in modo che ogni quattro rote formavano una sàrcina,
composta di 50 manne. Un tumolo li terra produceva, in media,
cinque a sei sàrcine.
Dopo quindici giorni circa, il lino si assimintava.
Si stendeva al suolo una tenda e vi si collocavano sopra una
o più pietre, sulle quali ti battevano con una mazza
di legno le pannocchie per farne uscire il seme (linusa),
che poi si ribatteva e si arieggiava (si sfruvuliava).
Un tumulo di terra produceva, in media, 6 a 8 tumoli di linseme,
che si vendeva a tari otto il tumolo ai mulattieri, che l'esportavano
in Palermo. Dal linseme si estraeva l'olio di lino, che serve
agli usi dell'arte tintoria e giova ai pittori per le decorazioni
di sale, gli impiantiti e i mobili di legno e di qualsiasi
specie. In farmacopea il linseme è usato per cataplasmi
in alcune malattie.
Dopo essere state assimintati, le manne si disponevano
a rota con le radici rivolte ali' infuori e terminanti in
alto a cono, sulla cui sommità si mettevano grosse
pietre per tenerle tutte a posto.
Top
5.
Macerazione
de lino.
5. Verso la metà di agosto cominciava
la macerazione del lino nelle acque fluviali, e precisamente
in alcune gore, dette nache, le quali consistevano in certi
avvallamenti naturali del letto del fiume che si accrescevano
artificialmente con prese fatte di pietre, stoppia e altro
materiale.
Le gore usate nel fiume del nostro territorio erano tre, la
prima nell' ex feudo Pecorone, la seconda nella contrada Cannitello
e la terza nella contrada Margi. In esse si macerava il lino
di Ciminna e pei tolleranza anche quello di Vicari, Roccapalumba,
Regalgiofalo e Caccamo. Ad ogni gora erano addetti circa dieci
operai, chiamati maragunàra, e si facevano
varie nacate, delle quali ognuna durava in media
8-10 giorni, durante i quali l'acqua snervava e scomponeva
i gambi del lino. Il periodo della macerazione durava in tutto
circa due mesi (dal 15 agosto al 15 ottobre).
Per mettere il lino nella gora, gli operai, con la gambe scoperte,
si collocavano a fila in mezzo alle acque, in modo che l'ultimo
di essi che era sulla sponda dava un fascio di lino, composto
di 8 a 10 manne, al più vicino e questo a quello che
seguiva, finché 1' operaio, che era all'altra estremità,
metteva il fascio sul fondo della gora che calcava con un
macigno per tenerlo a posto. A fianco di questo ne collocava
un altro, legandolo al primo, e così faceva di seguito.
Ad ogni proprietario di lino si dava la metà più
corta di una tacca, di cui la metà più lunga
rimaneva infissa nel lino. Ogni tacca portava segnato il numero
della sarcine e delle manne. Per togliere il lino dalle gore,
gli operai si collocavano nel modo suddetto, procedendo però
nel senso inverso, finché l'ultimo operaio, che stava
sulla sponda, lo consegnava al proprietario, il quale dopo
averlo fatto asciuttare, lo trasportava al luogo, in cui doveva
farlo maciullare.
I maragunàra percepivano per ogni sàrcina
tre carrini, poi da due a tre tari e dai proprietan di altri
paesi quattro tari, ma se avveniva una tempesta e scendeva
la piena nel fiume travolgendo e portando via il lino non
avevano diritto ad alcuna mercede. Oltre al detto pagamento
essi ricevevano in regalo, dopo la consegna, una o due anne
di lino.
Ma i maggiori guadagni li ritraevano nei suddetti casi di
tempesta, nei quali prima che arrivasse la piena toglievano
dal fiume parte lino e dopo raccoglievano quello disperso
lungo il fiume1
(1) I
proprietari del tino per scongiurare il pericolo delle tempeste
nel periodo della macerazione e per ottenere altre grazie,
promettevano a qualche santo una o più manne di lino
scotolato, (spatuliatu), e alle chiese l'ammitto
formato da tre palmi di tela, o di tessere il lino donato
alle stesse. Da ciò nacque il modo proverbiale : dari
o vulliri l'ammittu, cioè qualche piccolo regalo.
Top
6.
Maciullazione
del lino.
6. Finalmente il lino si maciullava (magliaia)
per rompere la parte esterna degli steli, e ciò si
eseguiva sopra una pietra detta ammazzaturi con una
mazza di legno a due battenti col manico in forma di martello,
chiamato magghiu. Vi erano i macellatori di mestiere
(magliatura), che lavoravano a giornata col salario
di tari quattro al giorno pltre il vitto, o a cottimo in ragione
di tre o quattro tari per ogni sàrcina, maciullandone
in media due al giorno.
Dopo questa operazione il lino era diviso dalla frasca (cutulatina)
e raccolto in fasci di venti manne. Quindi cominciavano i
lavori donnneschi della filatura e della tessitura, i quali
erano uguali in tutti i paesi della Sicilia, e ciò
avveniva nel principio della primavera : quannu 'a mennula
sciurisci, la fimmina impazzisci, perché vuole
cominciare a tessere. Le tele duravano molti anni, e alcune
si tramandavano da madre a figlia, di generazione in generazione.